Ho toccato cose che voi umani non potete neanche immaginare

di Edoardo Ferrini

Introduzione: il cieco e il bastone

Raramente nel cinema si è raggiunto un picco di commozione così intenso come nella famosa scena di Blade Runner (di Ridley Scott, 1982) in cui il replicante Roy, un essere in apparenza umano ma in realtà frutto di un tragico esperimento tecnologico, diventa umano, poco prima di morire, pronunciando il discorso-confessione-autorivelazione di fronte al suo cacciatore “umano”, Rick Deckard. Le parole parlano da sole:

Io ne ho viste cose che voi umani non potete neanche immaginare: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannahuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo. Come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.

L’ incipit del commiato sancisce una lunga tradizione, filosofica, estetica e antropologica, in virtù della quale la vista è stata e viene considerata il Senso per antonomasia, il principe e principio della sensibilità e della percezione umana. La prima parola del commiato è Io, vale a dire che il replicante acquisisce per la prima volta il proprio modo di essere, che sarebbe nullo, se egli non fosse in grado di vedere o avere guardato, non come una qualunque creatura, ma nello stesso modo degli esseri umani, anzi, anche più in là di loro, in spazi meravigliosi, paurosi e sconfinati. L’autoconsapevolezza della propria umanità allora passa per la capacità di sapere vedere. Si tratta di un film e il cinema è stato senza dubbio una delle glorificazioni ed espansioni più forti dello sguardo: la pellicola e il proiettore emulano il processo tramite il quale le immagini e i fenomeni della realtà si depositano sulla retina. Come dice il filosofo Umberto Curi si tratta di una pellicula poiché fa sentire le immagini, nella loro concatenazione con il movimento, sulla pelle degli spettatori.

Però l’esaltazione della vista è sorta ben prima degli schermi filmici o della non troppo recente video arte. Si tratta infatti di un percorso lungo ed elaborato di cui mi limito a riassumere solo alcune tappe, precisando però prima  un intento che sembra andare controcorrente rispetto alla scena descritta più sopra. Questo saggio infatti intende problematizzare l’idea per cui la società dei nuovi media si debba comprendere ed analizzare come se costituisse la massima espansione del Senso-sensibilità legati allo sguardo. E’ vero ed innegabile che ora la globalizzazione, nella sua esplosione nella Rete (la forma odierna del “villaggio globale” teorizzato e anticipato da Marshall McLuhan), permette di visualizzare anche gli angoli più remoti del mondo, anche nei minimi dettagli, e che la propria immagine, dai blog ai profili, non è mai stata così presente nello scenario comunicativo e sociale. Ma quante sono, allo stesso tempo, le espressioni del toccare con le proprie mani e il proprio corpo, in ambienti interattivi e immersivi? Il touch screen è solo uno dei tanti esempi. Per essere precisi la domanda guida del saggio è: esiste lo sguardo tattile e quali sono le sue peculiarità?

Ecco allora emergere l’oggetto specifico di questa breve ricerca, vale a dire il Tatto, un senso di cui già Aristotele nell’ Anima aveva evidenziato la particolarità sostenendo che è l’unico ad avere un rapporto diretto con l’oggetto e con la realtà, l’unico che richiede il contatto diretto corporeo. D’altronde Anassagora già nel quinto secolo A.C diceva che: “L’uomo è l’animale più sapiente perché possiede le mani”. La mostra Interazioni Giocose che è stata di ispirazione nella scrittura del saggio ha l’originalità di creare percorsi visivi e tattili per persone cieche, teoricamente e apparentemente non vedenti. I ciechi sono forse la rappresentazione più adeguata dello sguardo tattile, il quale non è solo la peculiarità dei percorsi artistici della mostra, lo è anche infatti rispetto a fenomeni- esperimenti di realtà virtuale, a molteplici videogiochi, a film in alta definizione come Avatar.

La filosofia, la letteratura e il cinema sono piene di metafore tattili, e credo che una tra esse sia degna di particolare attenzione. In un suo saggio scientifico, di fisica, scritto 1637 e intitolato la Diottrica, Cartesio inizia la propria spiegazione prendendo in considerazione un cieco. Egli non vede, ma sente, tocca, non con le proprie mani, perché si aiuta con un bastone che lo mette in contatto con i corpuscoli, particelle paragonabili ai moderni atomi. Questi ultimi ne colpiscono e modificano la percezione e la sensibilità anche se lui non vede,  poiché arrivano, passando per il corpo e gli altri sensi, alla parte più significativa dell’essere umano, secondo la prospettiva platonico-cristiana che Cartesio riprende, vale a dire la mente, chiamata dal filosofo francese animus. Il risultato è che il cieco alla fine vede. Ecco così riassunto il doppio filo conduttore che lega il mio breve saggio alla mostra: vedere con le mani e toccare con gli occhi.

 

Il primato della vista: la meraviglia e il sesto senso

Lo sguardo è stato considerato dalla filosofia greca in poi, dal quinto secolo A.C, il Senso per antonomasia, il più importante tra i cinque sensi, al punto da possedere una sensibilità propria, peculiare, autonoma capace di coordinare il tatto, il gusto, l’udito e l’olfatto, e anche capace di costituire un profondo e intimo legame con la mente, l’intelletto e l’anima. Posso sentire un odore, un rumore, un sapore, toccare un fiore per esempio, ma la maggior parte degli studi, filosofici  e scientifici sembrano dimostrare che il riconoscimento sensibile e la codificazione cognitiva di ciò che la nostra sensibilità incontra ed esplora passano necessariamente per la vista. Riconosco un cane soprattutto perché l’ho visto, ancora prima di averlo sentito abbaiare e averne riconosciuto l’odore.

Nella concezione ed etimologia greca infatti Vedere è sinonimo di Conoscere: il verbo eidein significa sia vedere che guardare con la mente. Oida significa ho visto, quindi so. Il replicante, in apparenza un non umano robotizzato, si umanizza quando si rende capace di vedere e conoscere come gli umani, esplicitando il legame tra l’avere visto e il conoscere. La filosofia è impregnata in questa co- appartenenza tra visione e conoscenza. Il verbo teorein da cui viene l’odierna parola teoria, significa contemplare (la vita contemplativa), per l’esattezza contemplare il cosmo allo scopo di comprenderlo e capirne la bellezza e la regolarità. La contemplazione è anche sinonimo di meraviglia, quel desiderio di conoscenza misto a stupore che Aristotele pone all’origine della filosofia. Egli scrive anche che i filosofi presocratici osservavano e contemplavano la natura. In che senso però? La frase intende significare che lo sguardo filosofico in particolare e in generale la vista possono essere disinteressate, vale a dire che guardo per capire e scoprire, non per possedere. Uno concezione simile sarà presente nell’estetica di Kant alla fine del 1700 quando dirà che il bello è disinteressato e possiede una “finalità senza scopo”. Credo che dipingere, come diversi artisti potrebbero testimoniare, derivi da un bisogno in primo luogo di comprensione, ancora prima che di possesso o strumentalizzazione della realtà esterna. Ecco già emergere un’importante peculiarità della vista, vale a dire il potere essere disinteressata rispetto a ciò che osserva. Sembra assurdo nella società odierna con i suoi “profili” patinati e seducenti, ma questo non è argomento di discussione.

Lo stupore e la meraviglia, poi, oltre ad essere disinteressati, possono ampliare l’ Immaginazione, peculiarità propria del vedere, inteso come guardare oltre (la siepe nell’ Infinito di Leopardi)- guardare l’assenza, ovvero immaginare qualcosa che non è presente (mi immedesimo per un attimo negli immigrati in cerca di una terra da abitare o nei primi naviganti, oppure negli artisti prima della creazione)- proiettare la fantasia nella realtà e viceversa, anche deformando quello che esiste, non solo configurando mondi possibili. Ed è quello che per esempio accade nei processi artistici o nel gioco.

Torniamo ora al verbo eidein che è centrale nel pensiero di Platone. Dal verbo in questione infatti deriva anche il termine idea. Nei più famosi libri della Repubblica conoscere, vedere e contemplare le idee scorrono sullo stesso piano. E il filoso greco elogia la vista forse come non mai nel Timeo, quando dice che  è come un fuoco che proveniente dagli oggetti tocca la pupilla che si proietta e li proietta nella parte razionale dell’anima. Con più esattezza la scienza moderna dice la stessa cosa. Infatti alcuni specifici neuroni collegano l’iride e la pupilla con il cervello, come se fossero una pellicola che illumina uno schermo.

La vista ad ogni modo è collegata alle idee e ai concetti degli oggetti e dei fenomeni, e per questo è il grande collante tra il piano sensibile-percettivo e quello cognitivo e gnoseologico. Ed ecco già sorgere un problema ed una precisazione: lo sguardo può costituire questo collegamento prezioso in assenza degli altri sensi? Chi ha elogiato la vista, anche Cartesio, cade in una sorta di solipsismo, di sovra valutazione del vedere. Aristotele nell’ Anima dice ripetutamente che i cinque sensi cooperano quasi esistesse una sorta di “sesto senso”, ma poi rende la vista quasi del tutto autonoma rispetto a tutti gli altri, come se fosse ella stessa il misterioso sesto senso. Platone fin da subito sostiene che la vista è il fuoco delle idee. Senza dimenticare che il concetto di vita contemplativa è stato posto da entrambi, in particolare modo nella Repubblica e negli ultimi libri dell’ Etica Nicomachea. Anche Cartesio segue un percorso simile. Nella Diottrica inizia sì con un cieco ma poi spiega che tra i nervi della pupilla e la mente esiste una sorta di proiettore che agisce similmente ad una camera oscura, che nelle metà del 1600 ancora non esisteva, ma che il filosofo francese sembra anticipare.

Ad ogni modo la vista collega la realtà, sia il senso interno che quello esterno,  con le idee. L’idea è un concetto della mente, come dirà anche Cartesio quando distingue tra adeguate e distinte. La mente conosce, codifica, rappresenta e riconosce la realtà sia esterna che interna tramite le idee. Pronuncio il nome tavolo perché ne ho l’dea, allora so riconoscerlo e distinguerlo dalle sedie, così la codificazione avviene sia a livello cognitivo che linguistico. Questo è un esempio di idea esterna. Diverso è il caso se dicessi “Mi sento triste”- diverso da dire “Quel cane è triste”- oppure “Mi sento triste come quel cane”. La psicoanalisi e la psicologia, non solo la filosofia, insegnano che la mente è anche autoriflessiva, ovvero pensa se stessa, i propri processi, insomma è autocosciente. E per esserlo ha idee anche riguardo a se stessa, al sé, all’io, in senso lato all’anima, alla Psiche, che infatti in greco si dice psuchè. Kant lo ha inteso perfettamente: esistono la percezione (percepisco qualcosa “fuori” di me, un fiore) e l’ autopercezione (insieme al fiore percepisco anche il mio sentire il fiore). Ecco che allora Kant pone una co-appartenenza tra senso interno ed esterno, tra l’io e la realtà, continuando la tradizione del soggettivismo moderno già inaugurata da Cartesio.  A dire il vero già Democrito aveva espresso un’idea simile quando diceva che una cosa è il sentire, un’altra è l’accorgersi di sentire. Questa co- appartenenza è la stessa che Aristotele attribuisce all’interazione tra il corpo e l’anima e tra il senso (la vista, il gusto, il tatto, l’olfatto e l’udito) e i sensibili (le qualità specifiche percepite, come il colore per l’occhio).

La coscienza- conoscenza del proprio sentire è stata attribuita, nell’ambito filosofico e religioso, all’ anima, da questo punto di vista identificabile con la mente o in generale con la psiche. E l’ Estetica è quella peculiare prospettiva filosofica che considera, comprende, analizza il modo di sentire e percepire proprio dell’uomo, sia nella sua evoluzione storica, sia da un punto di vista fenomenologico, sia da un punto di vista che chiamerei, riprendendo le preziose indicazioni di Emilio Garroni e Pietro Montani, costitutivo.

Kant nella Critica della ragione pura  esprime con precisione un’idea già diffusa in Aristotele e non solo, ovvero che ogni percezione è anche una modificazione. Se percepisco qualcosa, il mio animo, la mia mente, la mia autopercezione e addirittura appercezione cambiano, si modificano, e mi modificano, cambiando sia il mio interno che il mio esterno. E se non percepissi e comprendessi le mie e altrui modificazioni, non sentirei il manifestarsi del mio essere e delle esperienze che desidero significare. Ecco il legame estetico- costitutivo.

Tali modificazioni percettive e sensoriali producono quindi conseguenze sia sul piano individuale che in quello collettivo, lo storico- evolutivo. L’uso del pollice opponibile per esempio ha dato all’uomo primitivo possibilità di orientamento nell’ambiente prima impensabili, consentendogli di ergersi sulle due gambe ed usare le braccia, come espresso nell’importante tesi dell’antropologo Lerou Gourhan, ne Il gesto e la parola, scritto nel 1964. Secondo la sua tesi dal momento in cui i nostri antenati hanno saputo usare il pollice opponibile, le mani si sono autonomizzate rispetto alle gambe, con la conseguenza che la posizione eretta ha consentito anche uno sviluppo della mandibola propedeutico alla capacità di articolare suoni e parole. In questo caso la mano, il gesto, vengono addirittura prima del linguaggio.

Ripercorrendo invece un percorso che a noi sembra più vicino, le protesi della vista, dagli occhiali al cannocchiale, hanno esteso lo sguardo in realtà, complessità e profondità prima non rappresentabili. Come sostiene fin dalla metà degli anni novanta Derrick De Kerchkove, gli strumenti tecnologici sono protesi con cui l’uomo proietta ed estende il proprio essere e la propria percezione, con cui manifesta e incorpora anche fuori di sé, la propria autopercezione. Il termine estetica infatti viene da Aistesis, derivante dal verbo greco aistanomai che tra i diversi significati ha anche quello di sentire, percepire e sentire con la mente. La sensibilità si proietta nell’intelletto e viceversa, è anche Sentimento perché oltre alla percezione pertiene anche   all’ autopercezione. E l’ aistesis in tutta la sua vastità e complessità è interazione tra tutti e cinque i sensi, non solo con la vista. Ora particolarmente in virtù del tatto.

 

Toccare con le mani

Concludendo questo excursus riepilogativo ed esplicativo, Platone e Aristotele hanno posto le basi riguardanti il primato della vista nella nostra cultura. Tale primato però non sarebbe comprensibile senza alcune ulteriori tappe. La prima è l’avvento e lo sviluppo della religione e della filosofia cristiana che in una sua significativa tradizione considera Dio e il cosmo emanazioni della luce, la luce divina che illumina consentendo alle creature di osservare il creato con gli occhi del creatore. Roberto Grossatesta e Dante Alighieri, entrambi vissuti nel 1200, sono i capostipiti di questa metafisica dello sguardo.

La seconda  tappa riguarda invece più da vicino l’arte e le sue manifestazioni, poiché è la Prospettiva. Bernini e Borromini sono stati tra i primi a tradurre in termini artistici e scientifici il modo di guardare dell’uomo e del suo occhio, che non si limita alla superficie, poiché il nostro vedere scandaglia la profondità, essendo tridimensionale. Il vedere non è solo contemplazione del cosmo, è anche esplicazione di un proprio punto di vista.

Altra tappa è sicuramente l’uso delle lenti che ha portato prima ai cannocchiali che Cartesio tratta nella Diottrica, e poi ai telescopi. Certamente l’invenzione prima della fotografia e poi del cinema hanno ulteriormente ribadito il primato dell’occhio.

Per essere ancora più precisi tutte queste tappe non si sarebbero tenute insieme senza quella che lo studioso dei media Marshall McLuhan ha chiamato negli anni sessanta cultura alfabetica. Le società primitive non usavano la scrittura, perché sentivano, odoravano e toccavano, ancora più e ancora prima di osservare. La diffusione della scrittura la cui forma più evoluta è il linguaggio alfabetico codificato a livello di massa con l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg nella metà del 1400 invece ha tradotto la percezione del reale in termini peculiarmente e primariamente visivi.

La cultura alfabetica non è di certo scomparsa, nonostante il grave impoverimento linguistico che affligge paesi come l’ Italia, ma parlare oggi di primato dello sguardo è sempre più difficile. I segnali sono molteplici, a cominciare dalla mostra con percorsi tattili che mi ha consentito la spiegazione di questo saggio. Ma a livello macroscopico il touch screen e le esperienze immersive e tattili sono sempre più diffuse.

Il recente film Avatar, diretto nel 2010 da James Cameroon, è stato lanciato da uno slogan esemplificativo: “Non si guarda, si vive”. Là dove si vive può essere interpretato come sinonimo di “si tocca”. Il film è in 3d, in alta definizione, e significa che indossando speciali occhiali le immagini dello schermo alimentano la propria profondità come se uscissero da esso e colpissero la fisicità degli spettatori. I libri tattili poi riproducono sulla carta un effetto simile, così come quelle esperienze di video arte in cui lo spettatore si trova catapultato direttamente dentro l’opera. Tutto questo si traduce e sintetizza in Realtà Aumentata.

Quale è la conseguenza più immediata di tutto questo? E’ come se lo spettatore potesse toccare quello che vede. L’immagine è anche corpo, il corpo diventa anche immagine. Il tatto si confonde con la vista e la vista si confonde con il tatto. Ecco l’effetto immersivo. De Kerckhove lo ha sintetizzato ed esemplificato nel migliore dei modi sostenendo che l’uomo rinascimentale si basava sul punto di vista, mentre l’uomo tecnologico si costituisce tramite il punto di essere. La rappresentazione visiva e prospettica è comunque un guardare a distanza, la tattilità immersiva invece è fusione, confusione. Un’impressione simile si può provare con i vari fenomeni legati al touch screen per esempio gli schermi degli iPhones, oppure in videogiochi dal forte impatto realistico come Call of Duty in cui il giocatore non si limita ad osservare il proprio gioco interattivo, perché guarda come se fosse direttamente presente dentro il game, scegliendo la visuale in soggettiva. E cosa è la visuale in soggettiva se non la manifestazione di uno “sguardo incarnato”, che si incarna direttamente dentro la simulazione interattiva come se il fruitore fosse fisicamente presente nell’opera? Per non dimenticare i vari esperimenti ed esempi di realtà virtuale in cui, per esempio, in sperimentazioni scientifiche, è possibile catapultarsi nel processo in cui molecole organiche si scontrano, non limitandosi ad osservale, ma toccandole. I dibattuti nuovi media allora si profilano e caratterizzano proprio per il loro crescente aspetto e contenuto tattile e immersivo.

McLuhan già lo aveva anticipato dicendo che con la rivoluzione elettronica degli anni sessanta e settanta l’uomo è come colpito da improvvise scariche con cui entra in contatto con la propria autopercezione, sempre più incentrata in un rapporto tattile con l’interno e l’esterno. Tutto questo poi è addirittura aumentato con le successive rivoluzioni informatiche e digitali.

Non voglio spingermi a dire che la vista sta perdendo il proprio primato, probabilmente questo non avverrà mai, vorrei limitarmi a sostenere che lo sguardo è sempre più confuso con la tattilità e viceversa. Ci sono artisti, filosofi che hanno evidenziato le peculiarità del toccare e delle mani? Certamente non sono pochi. Una delle prime manifestazioni artistiche presenti nella storia umana, i dipinti nella grotta di Lascaux, sono alcune mani colorate rappresentate nella loro apertura, ovvero con il palmo dilatato che evidenzia le cinque dita. Si tratta di uno dei primi segni e tracce dei nostri antenati. Ecco un’altra peculiarità. La vista può meravigliare, ma di per sé non è in grado di lasciare tracce, di segnare e anche di disegnare. L’artista è probabilmente il più significativo “tattomane”, perché osserva e riproduce con le mani. Inoltre la vista come è stato spesso ribadito può ingannare (un oggetto lontano ha dimensioni distorte rispetto a quello che possiamo osservare da vicino), il tatto è difficile che illuda. Un cieco riconosce la grandezza e le dimensioni di un tavolo perché lo tocca.

Non si può allora dimenticare la parte della Cappella Sistina di Michelangelo, in cui raffigurando La Genesi le due dita si toccano tra loro. In questo caso il contatto corrisponde alla più grande forma di ominazione, che è la creazione. E nessun filosofo ha forse attribuito più importanza alla tattilità di Merlau Ponty (attivo in particolare nella prima metà del novecetno)  il quale riprende da Husserl il concetto di Leib, termine tedesco che in italiano potrebbe essere tradotto “corpo proprio”. La lingua tedesca non indica semplicemente il corpo, esplicitando appunto l’esistenza e peculiarità di un corpo incarnato, che si incarna nei fenomeni e nella reciprocità e co- appartenenza tra il senziente e il sensibile. La vista guarda, da vicino o a distanza, spesso a distanza, mentre il tatto entra in contatto diretto. Il vedere consente la percezione di sé tramite filtri, schermi, specchi, immagini, mentre il toccare è diverso perché consente un contatto diretto con il proprio corpo. Come precisamente? Per esempio quando la mano destra e la sinistra si toccano reciprocamente, metafora ed esempio spesso usati da Merlau Ponty. So di toccarmi, allora so di sentirmi, il che è propedeutico rispetto al sentire altre esperienze, sia interne che esterne. Inoltre il filosofo precisa che il rapporto esistente tra il corpo e le proprie mani è analogo a quello esistente tra l’artista e la propria opera.

L’arte è stata spesso interpellata. E, per concludere, come non parlare del gioco? Giocare è una forma di creatività in cui immagini e oggetti della fantasia si concretizzano in percorsi e regole, in cui il bambino o l’adulto-bambino impara a calarsi nell’esperienza proiettandola nel gioco stesso, usando soprattutto le mani.

Lo aveva già detto Anassagora nel quinto secolo A. C, che: “L’uomo è l’animale più sapiente perché possiede le mani”.


Bibliografia

Anassagora, in Diels  Kranz, 59 A.

Aristotele, Anima, (Bompiani, Roma 2001).

Etica Nicomachea, ( Bompiani, Roma 2000).

Metafisica, (Bompiani, Roma 2000).

Cartesio, Diottrica, in Opere Filosofiche, (Laterza, Bari 2009).

Curi Umberto, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, (Raffaello Cortina, Milano 2000).

Un filosofo al cinema, (Bompiani, Milano 2006).

Garroni Emilio, Estetica. Uno sguardo- attraverso, (Garzanti, Milano 1992).

Gourhan Leroi, Il gesto e la parola, (Einaudi, Torino 1975)

De Kerckhove Derrick, La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica,  (trad. it. 1996,  Costa & Nolan, Genova 2000).

Kant Immanuel, Critica del giudizio, (trad. it.Tea, Milano 1995).

Critica della ragion pura, (Bompiani, Milano 2007).

McLuhan Marshall, Gli strumenti del comunicare, (trad. it. Garzanti, Milano 1991).

Montani Pietro, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’ età della globalizzazione, (Carocci, Roma 2007).

L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare, il mondo visibile, (Laterza, Bari, 2010).

Platone, Repubblica, (Laterza, Bari, 2005).

Timeo, Platone(Bur, Milano 2003).

Ponty Merlau, Fenomemenologia della percezione (trad. it., Bompiani, Roma 2003).

Il visibile e l’invisibile, ( trad. it., Bompiani, Roma 2014).


Edoardo Ferrini, nato nel 1987, laureato in filosofia con una tesi di estetica cinematografica, nutre da diverso tempo interesse per tematiche che abbracciano cinema, filosofia e storia-teoria-pratica artistica.